venerdì 25 maggio 2012

Cosmopolis, la recensione del film di Comingsoon.it


Se, per usare una formula abusata soprattutto in questi giorni, il romanzo di Don DeLillo è stato "profetico", che David Cronenberg abbia portato al cinema "Cosmopolis" ora, in questo periodo storico, non fa altro che confermare quanto il canadese continui ad essere un sensibilissimo sismografo dei tempi che viviamo.
È stato lo stesso regista a raccontare la sua sorpresa per il nascere del movimento di Occupy Wall Streetproprio mentre lui era sul set di questo suo nuovo film: e rendersi conto dell’attualità di una storia prima ancora che certi fatti accadano dimostra una sensibilità importante.

Ma, essendo l’autore che è, appare piuttosto evidente che a David Cronenberg interessano poco il panorama esteriore e sociale, la metafora della crisi, le analogie economico-finanziarie col presente. Cosmopolis - che tutto questo lo nega allo sguardo quasi costantemente, se non attraverso sprazzi di realtà che si scorgono dai finestrini della limousine - è tutto concentrato sui paesaggi interiori del protagonista: paesaggi vuoti, desertici, dolorosi e malati.

Chiuso in sé stesso e totalmente autoreferenziale, il personaggio di Eric Packer (al quale la fissità espressiva e il tono monocorde di Robert Pattinson sono perfettamente funzionali) si riempie solo di parole, quelle parole incessanti che Cronenberg ha deciso di trasportare intatte dal carta allo schermo, e che comunicano crisi e disagio non tanto per il loro contenuto quanto, più semplicemente, per il loro essere.

Logorroico e raggelato, Cosmopolis è un film di Cronenberg nel quale, ancor di più di quanto abbia fatto con il suo cinema più recente, Cronenberg tenta di essere altro sa sé, o sé stesso. Di rendersi invisibile, di mettere la sordina ai suoi toni più forti. Ma questa volta emerge lo stesso l’eco stilistico di molto suo cinema, dall’asettismo malato di Crash alla scientifica visceralità di Videodrome.

Cosmopolis è un film estenuante, spiazzante, che riesce perfettamente nei suoi intenti evocativi anche laddove non riesce come cinema. È una traduzione lettereale del romanzo di De Lillo, una scatola cristallina e trasparente che contiene il vuoto e il suo orrore. Che ti si piazza davanti agli occhi, occupando lo sguardo ma senza occuparlo al tempo stesso.
Tanto consapevole di sé stesso e solipsistico da mettersi spesso i bastoni tra le ruote da solo. Proprio come il suo protagonista.

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