giovedì 2 agosto 2012

grazia.it intervista Don DeLillo

DON DELILLO: INTERVISTA ALLO SCRITTORE DI «COSMOPOLIS»


Don DeLillo, scrittore americano (di origini italiane) di capolavori come «Underworld», «Rumore bianco» e «Cosmopolis», è approdato in Italia per il festival Collisioni (dal 13 al 16 Luglio a Barolo). A breve in uscita il suo nuovo libro «Angel Esmeralda».

Camicia azzurra, jeans neri, capello bianco, anzi bianchissimo. Un giacca grigia appoggiata sulla spalla destra quando si alza in piedi. Ve lo racconto perché non posso farvelo vedere, DeLillo ci chiede più volte di non fare foto. E’ schivo, lo sapevamo, ma gentile: la sua sembra essere timidezza vera.

Elster, il vecchio protagonista di «Punto Omega» afferma “quando hai strappato via tutte le superfici, quando guardi sotto, ciò che resta è il terrore. È questo che la letteratura vuole curare”. Per lei è così?
No, non io non voglio guarire nulla. Quando ho iniziato a scrivere ero uno scrittore frenetico. Negli anni Settanta scrivevo quel che mi veniva nella mente. Poi ho capito di essere un vero scrittore, la lingua ha iniziato a diventare la cosa più importante. Volevo rendere giustizia alle possibilità di sperimentazione che mi dava l’angloamericano . Così mi sono preso del tempo e negli anni Ottanta ho scritto solo tre libri: «I nomi», «Libra» e «Rumore bianco». Sono diventato uno scrittore serio, uno scrittore che dava importanza al linguaggio.

In che senso ha capito di essere diventato “un vero scrittore”?
È successo presto. Stavo lavorando al mio primo romanzo. Andavo avanti lentamente, con molte incertezze. Dopo due anni di lavoro ho capito che ero un vero scrittore perché volevo pubblicare quel libro a tutti i costi. Anche se non l’avrebbe letto nessuno.

Nei suoi ultimi romanzi, in particolare «Cosmopolis» e «Punto Omega» c’è un tema che ritorna: il senso del tempo.
Ho avuto un’educazione cattolica. Il tempo è sempre stato per me un tema fondamentale. Quando ho scritto «Punto Omega» volevo scrivere un romanzo sul tempo. Ne ho parlato anche con un filosofo, gli ho chiesto se il tempo fosse definibile, ma lui mi ha risposto che è un concetto troppo difficile. Io però non sono un filosofo, sono un romanziere e per me è più facile. Perché posso usare le parole. Sono rimasto molto impressionato da un’opera d’arte che ho visto al Moma, «24 Hour Psycho» di Douglas Gordon: si trattava di una versione estremamente rallentata del celebre film di Hitchcock, ci voleva un giorno intero per vederlo tutto. Questo mi ha fatto riflettere sul tema della relatività e della manipolazione del tempo; per questo ho deciso di ambientare il romanzo nel deserto, lontano da tutto. Dove l’unica cosa che accade è il tempo, ma non il tempo che passa. Il tempo come percezione essenziale di ogni istante.

In «Cosmopolis», invece, tutto si svolge in una sola giornata.
Lì scrivo che è il denaro a creare il tempo. Il mondo in quel periodo era dominato dalla finanza, i soldi hanno iniziato a dominare il tempo. Una volta era il contrario. Il denaro ha dato un’accelerazione alla nostra osservazione e percezione. Eric Packer vive tutta la sua vita in un giorno. E questo lo distrugge.

Un libro molto complesso da portare sul grande schermo. Cosa ne pensa del lavoro di David Cronenberg?
Cronenberg ha fatto un lavoro che mi ha davvero colpito. Lui è un regista con cui non si scende a compromessi e sono rimasto impressionato da come sia riuscito a rendere sul grande schermo il mio romanzo, ambientando il film per tre quarti all’interno di una limousine. È un film molto immaginifico. In particolare ho apprezzato la scena finale, i 22 minuti di scontro e dialogo tra il protagonista Robert Pattinson e Paul Giamatti.

Le piacerebbe che un altro suo libro diventasse un film? Se dovesse scegliere un regista italiano chi le piacerebbe?
Molti registi che mi piacciono sono morti. Penso a Michelangelo Antonioni… Ma sarebbe difficile lavorare con lui! Se dovessi scegliere un regista vivente, non saprei. C’è un regista italiano che ha manifestato interesse per uno dei miei libri, ma non posso dire nulla al momento.

Il suo prossimo libro, «Angel Esmeralda» è una raccolta dei racconti scritti in trent’anni di carriera (dal 1979 al 2010 circa). Dopo quindici romanzi che effetto le fa pubblicare dei racconti?
Quando ero giovane leggevo molti racconti americani. Sono sempre stato affascinato dalla tradizione americana della short story, racconti brevi che generalmente non finiscono con una soluzione ma con un punto di domanda. Così, nel corso della mia carriera, ho scritto anche racconti che non ho mai pubblicato. Non hanno niente a che fare con i miei romanzi, né per tematiche né per altro. Rientrano nella tradizione americana del non finito, sono più confortevoli dei romanzi anche se ritorna il tema dell’ansietà.

Un'ultima domanda: lei che rapporto ha con i suoi lettori?
Quando scrivo lo faccio solo per le pagine. Ho bisogno di sentire il rumore dei tasti della mia macchina da scrivere e di vedere la forma delle lettere. Così, mentre cerco di creare una lingua che abbia l’anatomia della bellezza, guardo le lettere e mi accorgo che esiste un altro livello. Quello delle parole.

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